Una testimonianza dalle carceri

Grazie al nostro staff in Kenya, i loro occhi siano i nostri.
Ecco un racconto dettagliato e toccante dell’esperienza nelle carceri.

Un paio di settimane fa ho finalmente ottenuto l’autorizzazione dal Prison Deparment a condurre la ricerca sui diritti umani negli istituti correttivi del Kenya, nell’ambito del progetto “Strengthening Human Rights in Correctional Facilities in Kenya”. Avevo già nei mesi scorsi visitato diverse carceri tra Nairobi, Kenya occidentale e la regione costiera, ma questa autorizzazione mi permette anche di intervistare rappresentanti dei detenuti e ufficiali che lavorano dentro le carceri, e raccogliere più informazioni possibili sulla situazione generale del sistema carcerario keniota.
Ho utilizzato la parola “finalmente” nel riferirmi all’ottenimento di questa autorizzazione non tanto e non soltanto perché mi permette di raccogliere tutte le informazioni necessarie allo svolgimento della ricerca prevista dal progetto, ma soprattutto perché ho sempre ritenuto un privilegio il fatto di poter entrare in un carcere. Può suonare strano sì, mi rendo conto, ma più conosco questo mondo più mi convinco del fatto che lo sia, un privilegio, la possibilità di mettere piede al di là di questi massici cancelli metallici, di poter vedere con i miei occhi quello che la stragrande della popolazione non vedrà mai. E quello che si vede e si incontra oltre quei cancelli è spesso uno dei punti più bassi che il sistema societario può e potrà mai toccare, in alcuni paesi probabilmente più che in altri, ma mi sento di poter dire con una certa sicurezza che vale per qualunque carcere nel mondo. Nonostante ciò, anzi forse proprio per questo motivo, il valore di questo privilegio è ancora più alto, ed è anche il motivo per cui mi “costringo” in qualche modo a scriverne. Credo che entrare in un carcere sia un privilegio per diverse ragioni: da una parte, è un mondo talmente chiuso, forse uno degli ambienti più chiusi in assoluto rispetto a chi non ne fa parte (per lavoro o per circostanze di vita), che riuscire a varcare quella soglia ti fa un po’ sentire come se fossi stato scelto, proprio tu, ad entrare nella casa e nella vita di centinaia, a volte migliaia, di persone, a conoscerne i dettagli. È un privilegio rispetto a chi è fuori, e non potrà mai davvero conoscere questa realtà e rimarrà quindi sempre privato della conoscenza di una parte enorme e cruciale per la comprensione della natura umana; e lo è rispetto a chi dentro ci vive e ci lavora, perché tu sei quella che a fine giornata tornerà a casa propria, a farsi una doccia, a prepararsi la cena, andare al cinema con gli amici, o soltanto a leggere un libro su un letto comodo, o a finire un noiosissimo lavoro fino a tarda notte… ma disponendo di una libertà di cui non realizziamo mai davvero il valore. È per questi motivi, d’altra parte, che devi fare assolutamente tesoro di tutto quello che vedi, senti, ascolti, percepisci: anche se nessuno ti ha esplicitamente investito di questo ruolo, tu diventi un po’ l’anello di congiunzione tra il “dentro” e il “fuori”, tra il carcere e il mondo esterno. Sei tu che porti “dentro” uno sguardo esterno, da alcuni percepito come uno sguardo indagatore ma da altri come uno sguardo interessato a conoscere, conoscere per, possibilmente, intervenire. Forse è un’immagine sproporzionata rispetto alla realtà, e forse un po’ naive, forse dettata dell’emotività del momento, ma a volte gettare lo sguardo dentro un carcere è un po’ come essere la persona che avvista un SOS, muto, non urlato, ma silenziosamente lanciato, non da una o più persone nello specifico, ma da un intero sistema disfunzionale e al collasso.
E quando esci, sei sempre tu che poi porti “fuori” quello stesso sguardo, e che dovresti in qualche modo trasformare il privilegio che hai avuto nel dovere di far sapere agli altri quello che esiste e di cui troppo pochi sono consapevoli. Non allo scopo di puntare il dito contro qualcuno o qualcosa, ma per rendere fruttuoso il privilegio che ti è stato concesso di entrare nella vita di queste migliaia di persone e di rispondere ad un loro tacito SOS, utilizzando forse l’unico strumento che hai a disposizione: la parola, il racconto.
Ed è qui che forse arriva la parte più complicata, ovvero riuscire a descrivere a parole quello che si è visto, che si è odorato, che si è percepito sulla pelle. È questa una delle occasioni in cui mi piacerebbe proiettarmi nel prossimo secolo quando magari potremmo scattare dei fotogrammi direttamente con i nostri occhi e fare ripercorrere ad altri quello che abbiamo osservato noi.

La prima volta che ho visitato un carcere qui in Kenya, qualche mese fa, ricordo nettamente la sensazione che più mi ha colpito nel vedere dei bambini molto piccoli, sotto i 4 anni, figli di donne detenute, custoditi anche loro dentro le stesse celle che ospitano le madri. Alcuni di loro sono nati lì dentro, non hanno mai ancora conosciuto il “fuori” e noi eravamo probabilmente tra le pochissime persone esterne che avessero mai incontrato, e di sicuro le prime bianche che avessero mai visto (e ce ne siamo rese conto dalle urla disperate che hanno lanciato un paio di loro alla nostra vista). Ricordo che mi aveva parecchio turbato il loro pianto, il loro essere completamente e inequivocabilmente fuori luogo in una struttura detentiva, loro, bimbi di 2-3 anni senza alcuna colpa da “espiare”, se anche questo fosse lo scopo di un carcere.
Lì per lì ho scacciato il pensiero, non c’è tempo per fare i sensibili e non è salutare soffermarsi troppo a pensare a certe cose se fai questo lavoro. Le visite nelle carceri e negli istituti minorili si sono susseguite, io ho accuratamente evitato di soffermarmi a pensare troppo, se non per elaborare informazioni utili al nostro lavoro e non mi sono mai fermata a dare una forma alle miriadi di immagini, di numeri, di odori che ti assalgono, letteralmente, quando superi quei cancelli.
Non so bene perché ho deciso di farlo adesso. Forse perché in questi ultimi giorni ho visto posti particolarmente problematici, forse perché ho iniziato anche ad intervistare gli stessi detenuti, forse perché, tra le altre persone, ho incontrato un direttore estremamente illuminato, appassionato, competente, motivato e motivante. O forse soltanto perché era arrivato il momento di farlo, di restituire a un foglio di carta virtuale e a chi mai lo leggerà tutto quello che i miei occhi e i miei sensi ogni tanto fanno fatica a trattenere.

Negli ultimi giorni sono entrata in 5 carceri femminili e 5 maschili, intervistato 13 ufficiali e 14 detenuti. La popolazione delle carceri femminili è contenuta, a volte anche sotto la capienza ufficiale, ad eccezione di 2 casi in cui le detenute sono 250 contro una capienza ufficiale di 150. Ma quando si passa alle carceri maschili, la sovrappopolazione diventa quasi impensabile e risulta difficile immaginare come così tante persone riescano a vivere in spazi tanto ristretti e con così poche risorse. La popolazione totale delle 5 carceri visitate arriva a circa 3700 per una capienza ufficiale di poco più di 2000. Questo 1700 extra può anche sembrare un numero relativamente non troppo alto; 1700 persone in fondo potrebbero non essere così tante, distribuite in 5 strutture, potremmo pure essere portati a pensare che se ci si stringe un po’ potrebbe poi non essere così terribile. Diventa invece una quantità insostenibile quando una struttura che potrebbe accogliere a stento 600 persone ne contiene più di 1000, o un’altra con una capienza di tutt’al più 500 ne ospita 900, in spazi che sarebbero già risicati rispettando la capienza ufficiale.
L’impatto con un carcere sovraffollato e congestionato ha forse sostituito quello del bambino in lacrime della mia prima visita in un carcere femminile. E forse rimarrà nella mia memoria per un po’. Lunedì scorso, dopo aver visitato un carcere femminile non lontano da Nairobi, io e la mia collega ci siamo spostate in quello maschile. Dopo una chiacchierata con il vice-direttore, gli abbiamo chiesto circa la possibilità di entrare nella struttura e dopo una certa riluttanza si è convinto e ha chiesto agli ufficiali in servizio di organizzare e facilitare la visita. Ci hanno quindi portato a vedere i laboratori per la lavorazione del legno e del metallo, fuori dalla struttura, dove i detenuti lavorano controllati a vista da ufficiali armati.
Dopodiché siamo entrate, prima un massiccio cancello di metallo, quello principale, e poi, dopo aver lasciato le borse in un atrio con un ufficio, siamo state portate dentro un altro cancello, chiuso con un banalissimo, seppur grosso, lucchetto. Una volta dentro, con due ufficiali davanti e due dietro, il pugno allo stomaco è arrivato, inevitabile, insieme alla luce e il calore del sole equatoriale, l’odore penetrante nonostante fossimo all’aria aperta e un impatto visivo travolgente: questo carcere ospita 900 detenuti contro una capienza di 400. Appena entrate la sensazione è stata subito di claustrofobia, nonostante ci trovassimo in un cortile all’aperto, per la quantità di persone ammassate intorno, innumerevole, nonostante molti di loro fossero chiusi nei dormitori-stanze (a causa della presenza di un numero ridotto di staff non è possibile che tutti i detenuti siano liberi di stare nel cortile tutti insieme, oltre al fatto che quel cortile non sarebbe fisicamente in grado di contenere 900 persone). In un cortile separato, circondato da una sorta di gabbia, stanno invece i detenuti condannati per reati gravi e quelli condannati alla pena di morte. Sebbene non vengano più effettuate esecuzioni in Kenya, la pena di morte è ancora prevista dal codice penale ed ancora comminata dai giudici: i condannati a morte vivono quindi separati dagli altri, insieme ai condannati a lunghe sentenze, e sempre nel dubbio che un giorno o l’altro possano essere giustiziati.
Le diverse categorie di detenuto si riconoscono dalle diverse uniformi: i detenuti in attesa di giudizio, per reati gravi, indossano un’uniforma grigia oppure, in molti casi, non indossano uniforme ma i propri indumenti, mentre i detenuti già condannati indossano un’uniforme bianca a righe blu, vecchio stile, come lo è la struttura. Sono per la stragrande maggioranza istituti costruiti in epoca coloniale e scarsamente o per nulla rinnovati, ad oggi fatiscenti e non adatti ad accogliere popolazioni così ampie, con scarse condizioni igieniche e di sicurezza, soprattutto in carceri così congestionate.
Come detto, un carcere in Kenya si presenta tipicamente cosi: superati due cancelli, si entra in un cortile – più o meno ampio a seconda dei luoghi – circondato/delimitato dai dormitori/stanzoni in cui, in particolare i detenuti in attesa di giudizio, essendo illegale per legge la loro partecipazione ad attività lavorative e laboratori, trascorrono gran parte della loro giornata. I detenuti e le detenute non dormono su letti ma su materassi a terra, che nel caso di carceri sovraffollate sono assolutamente insufficienti al numero di persone.
Nei giorni scorsi ho invece avuto un’idea più ravvicinata del dormitorio di un carcere sovraffollato. I direttori delle carceri che abbiamo visitato ci hanno fatto entrare senza problemi, anzi accompagnandoci di persona e puntualizzando loro per primi i fortissimi disagi e le gravi violazioni dei diritti umani che subiscono quotidianamente i detenuti a causa del sovraffollamento. Siamo quindi state accompagnate fin dentro un dormitorio che ospita detenuti in attesa di giudizio, pieno delle 92 persone che ci vivono e dormono, dal momento che durante l’ora di pranzo si mangia a turno ed era il turno dei detenuti già condannati. Siamo rimasti sulla soglia della stanza, addentrarsi era impossibile: stando tutti seduti i 92 uomini non rimaneva un minimo spazio libero per passare, oltre al fatto che tutto tratteneva dall’entrare, dal buio, al caldo soffocante, all’odore insopportabile (dentro i dormitori ci sono anche le latrine). I materassi a disposizione sono una quindicina, come ci ha detto uno dei detenuti su sollecitazione del direttore stesso. Un’immagine simile ci si è riproposta nei giorni seguenti, dove uno stanzone simile ospitava circa 130 detenuti, alcuni dei quali finiscono per dormire sul pavimento delle latrine, ammassati come sardine, con tutte le immaginabili – o meno – conseguenze dal punto di vista sia igenico che di rischi di violenza fisica e sessuale. Una delle due latrine anzi viene chiusa, durante la notte, perché occupata da chi deve utilizzare quel residuo spazio di pavimento per dormire, per cui non rimane che un unico bagno utilizzabile da anche oltre 100 persone.
A tutto questo e all’odore penetrante di centinaia di persone con accesso limitato alle docce e all’igiene personale, si aggiunge il costante e immancabile fumo e la puzza di bruciato che arriva dalle cucine: prefabbricati di lamiera, cucine a carbone, con sistemi di areazione e ventilazione minimali se non del tutto inesistenti.
Tutti ricevono 3 pasti al giorno e dormono sotto un tetto, il più delle volte non ci sono materassi per tutti ma le coperte si. Ricevono una minima assistenza sanitaria e hanno tutto sommato accesso alle visite da familiari e amici. Quando si visita un carcere sovraffollato keniota però la sensazione che tutto ciò non sia abbastanza è netta, e che non siano queste condizioni di vita rispettose della dignità umana.

La stragrande maggioranza dei detenuti, sia uomini che donne, sono ancora in attesa di giudizio, chi da qualche mese, chi anche da 6-7 e passa anni. Sono i “remandees” e hanno meno diritti dei detenuti già condannati. Questo è uno dei più grandi paradossi della giustizia keniota: un sospetto, quindi innocente fino a prova contraria, per ogni tipo di reato – dal furto di un mango o un’infrazione stradale all’omicidio premeditato – viene arrestato e portato in carcere se non può permettersi di pagare la cauzione, e ci rimane finché il suo caso non viene processato e la Corte non arriva ad una sentenza. Questo può appunto vuol dire dai 6 mesi, per i casi più semplici, a diversi anni per i reati più gravi. E il paradosso sta nel fatto che, nonostante siano sospetti innocenti fino a prova contraria, e nonostante siano in carcere per un reato di cui si deve ancora accertare la natura e le dinamiche, la loro stessa sopravvivenza dentro il carcere è a carico loro. A seconda delle risorse a disposizione di ciascun carcere, i remandees vivono con i propri vestiti – quelli che hanno al momento dell’arresto e quelli che riescono eventualmente a ricevere dai familiari in visita – e con i prodotti per l’igiene che riescono a procurarsi loro stessi – in alcuni casi comprandoli nei negozi interni alla prigione oppure nei casi in cui i loro familiari riescano a comprarli per loro.
Ho avuto la possibilità di intervistare almeno un detenuto condannato alla pena definitiva ed un remandee per ogni carcere visitato, e la differenza di condizioni in alcuni casi è palese, perfino fisica: i condannati hanno sempre un’uniforme fornita dal governo e accesso a prodotti igienico-sanitari, cosa che non avviene per i remandees. Ricevere una condanna definitiva diventa quasi un sollievo, la conquista di “privilegi”, come l’accesso ai servizi di base del carcere forniti dal governo e oltretutto la possibilità di lavorare, guadagnando e imparando quindi una professione, cosa che è vietata dalla legge keniota per i remandees. Non hanno infatti la possibilità di partecipare ai laboratori e, soprattutto nelle carceri maschili – sovraffollate – trascorrono le loro giornate nel dormitorio in cui dormono, impegnandosi al massimo in giochi a carte e preghiere, con accesso limitato agli spazi aperti. Per motivi di sicurezza, infatti, trattandosi di numeri altissimi (anche 1000, 1200 detenuti contro una presenza massima di circa 70 ufficiali per ciascun turno), i dormitori sono aperti a turni e in particolare i condannati a pena definitiva sono quelli che, avendo il diritto e la possibilità di lavorare, trascorrono gran parte del loro tempo fuori dal dormitorio. Al contrario, i remandees sono quelli che, in alcuni casi, hanno il permesso di uscire all’aperto anche soltanto un’ora al giorno e/o soltanto per ricevere i pasti. A ciò si aggiunge la lunghezza dei procedimenti giudiziari, per cui un sospetto può aspettare fino a 8-9 anni prima di ricevere una condanna definitiva, o anche scontare un periodo di tempo in carcere superiore a quella che sarebbe la pena prevista per il reato che gli viene imputato (un uomo accusato di un reato che prevede la pena di 6 mesi, quasi certamente trascorrerà molto più tempo in carcere come remandee). È estremamente raro, inoltre, che un detenuto si sia potuto permettere o – se remandee – si possa ancora permettere un avvocato e un’assistenza legale. Sono in pochissimi a potersi permettere un avvocato personale, e quello pro-bono, garantito dal governo, è previsto soltanto nei casi di sospetto omicidio. Ed è qui che troviamo un altro paradosso del sistema di giustizia keniota: l’omicidio rientra, naturalmente, tra i reati più gravi, cosiddetti capital offences, per i quali sono previste pene lunghe, fino al carcere a vita o la pena di morte (ormai tramutata in carcere a vita). Tra questi reati è però compresa anche la rapina con violenza, reato per il quale è anche prevista la pena di morte, ma per il quale non è invece previsto l’avvocato pro-bono. È così che quindi molti remandees nelle carceri keniote si ritrovano reclusi per anni, senza assistenza legale e facendo affidamento ad una giustizia penale che si basa perlopiù sull’utilizzo dei testimoni come quasi unica fonte investigativa.
La violenza verbale e fisica tra detenuti e tra ufficiali e detenuti è inoltre molto diffusa, seppur non sia direttamente ammessa con molta facilità, né dagli uni né dagli altri. Eppure le condizioni di – a volte estremo – sovraffollamento rendono quasi inevitabile, da una parte il rischio di subire violenza da parte di altri detenuti (per la mancanza di supervisione e per gli spazi estremamente ristretti che si trovano a condividere) e da parte degli ufficiali sotto forma di punizioni corporali. Soltanto uno dei detenuti intervistati ne ha parlato direttamente, ma mi ha particolarmente colpito l’affermazione di un remandee, in carcere da più di 6 anni, che affermava come in carcere vengano “trattati bene finché si comportano bene e trattati male quando si comportano male”. È un’affermazione che rispecchia molto la convizione diffusa e radicata per cui la cane, ovvero la “bacchetta”, il bastone, sia l’unico efficace strumento per contenere i detenuti e ottenere disciplina e osservanza delle regole.
D’altro canto, anche il rischio degli ufficiali di subire aggressioni da parte di detenuti, in situazioni di tale densità umana, è esistente e l’essere vittima di abuso verbale è quasi una costante, sia da parte dei detenuti che da parte degli ufficiali, soprattutto di rango più basso. Gli ufficiali nelle carceri si trovano tra l’altro a lavorare in condizioni a volte estreme, con stipendi bassissimi e in condizioni lavorative ed abitative che ne azzerano la loro motivazione.

So già che molte delle persone che pure si arrischiassero ad arrivare così in fondo nel racconto, potrebbero commentare con frasi del tipo “beh, sono pur sempre detenuti, hanno commesso dei reati, a volte molto gravi, per cui che non si aspettassero di vivere in un albergo a 5 stelle!”, oppure più banalmente “se sono in carcere, se lo meritano”. Ho affrontato tante discussioni di questo tenore nella mia vita; nonostante sia ancora tutto sommato giovane è da tanto che ho iniziato ad interessarmi di questo settore e tante volte mi sono trovata a discuterne con persone diverse e ad affrontare approcci diversi. Non sono ancora riuscita a trovare una spiegazione al mio interessamento – un po’ peculiare, lo ammetto – per questo genere di argomento, ma di due cose in particolare sono molto convinta: primo, nessun essere umano si merita di vivere in certe condizioni e, secondo, lo Stato per definizione è un organismo super-partes, che ha il ruolo di proteggere i suoi cittadini e garantire non soltanto la convivenza civile ma anche il rispetto delle regole, indistintamente, nei confronti di tutti i cittadini, senza alcuna distinzione, e senza esserne esso stesso esonerato. E con questo mi riferisco, nel caso specifico, ai diritti umani che, proprio come concetto, si riferiscono e valgono per tutti gli esseri umani, senza alcuna distinzione e che non valgono “di meno” a seconda dello status di un cittadino. E non perdono di valore neanche per un omicida, no, proprio perché lo Stato è (o così dovrebbe essere) superiore all’emotività e all’istinto punitivo di noi singoli cittadini ed ha il compito di lavorare in termini di Giustizia – con la G maiuscola – e non in termini di risposte retributive per soddisfare le richieste di vendetta del singolo cittadino. Lo Stato non può e non deve macchiarsi delle stesse colpe per le quali punisce i suoi cittadini, e mi riferisco a qualunque Stato, non solo quello keniota; a maggior ragione uno Stato che ha accettato, firmato e fatto propri trattati e standard legali internazionali.
Mi sono ritrovata nei giorni scorsi ad intervistare più di un detenuto condannato o in attesa di giudizio per il reato di omicidio. E sì, non capita tutti i giorni. Mi sono quindi ritrovata a riflettere su questo, su quanto un omicida, una persona che ha privato un’altra di un bene incommensurabile, la vita, possa aver ancora dei diritti. E la risposta è di nuovo quella di cui sopra, non cambia una virgola.
Fortunatamente non siamo noi a dover giudicare e dare punizioni, sull’onda di uno stato emotivo, ma uno Stato, composto sì da persone ma che si presume siano imparziali e operino nel rispetto di principi di Giustizia e Diritto universali, e che hanno il compito non soltanto di attribuire responsabilità ma anche di assumersene, e leggere nella presenza di carceri sovraffollate anche i segni di un proprio fallimento instrinseco. Il principio di rieducazione e reinserimento dei detenuti nella società, un esempio tra tanti, risponde infatti – tra le altre cose – alla capacità del sistema di fornire ai suoi cittadini i mezzi e le opportunità per scegliere strade alternative al crimine e lavorare sulla riduzione della recidiva. Cosi come l’introduzione di misure alternative al carcere alleggerisce il sistema carcerario e, anzi, enfatizza la responsabilità individuale da una parte e comunitaria dall’altra rispetto al reato commesso: è il singolo individuo, autore del reato, che, anziché chiudersi in un carcere lontano dalla comunità che ha in qualche modo “offeso”, dovrà attivamente impegnarsi per guadagnarsi di nuovo la fiducia dei suoi concittadini, i quali a loro volta dovranno lavorare per accettare la riparazione del danno e assumersi quella, seppur anche minima, parte di responsabilità che la società ha in quello stesso reato.

È per questi motivi che il progetto pilota del CEFA mi sembra tanto importante quanto cruciale da portare avanti ancora in futuro. Il progetto si pone infatti in questi termini: lavorare con lo staff delle carceri, con il dipartimento, i direttori e gli ufficiali, allo scopo di introdurre e rinforzare il concetto ed il rispetto di diritti umani, nel senso più ampio dell’espressione e come le linee-guida delle Nazioni Unite ben racchiudono. I diritti umani, sia per i detenuti che per gli ufficiali, tra i quali c’è indiscutibilmente un legame cruciale: diritto a standard di vita rispettosi della dignità umana, che vanno dal cibo, alle condizioni igieniche e assistenza sanitaria, al diritto a vivere in condizioni minime di spazio, ma anche il diritto ad un processo giusto, a tempi proporzionati e ad assistenza legale, nonché il diritto ad essere protetti da ogni forma di violenza fisica, psicologica e sessuale.
Ad affiancare questo lavoro di formazione e sensibilizzazione sui diritti umani, a tutti i livelli del sistema, il CEFA lavora anche per la fornitura di servizi di supporto psicologico ai detenuti e di servizi di reintegro dei detenuti nella comunità, fornendo ad alcuni di loro strumenti e kit per cominciare delle attività lavorative una volta rilasciati. Anche gli ufficiali hanno infine un ruolo cruciale, non soltanto come figure fondamentali per la concreta protezione dei diritti dei detenuti, ma anche come loro stessi primi beneficiari di interventi volti all’affermazione e alla protezione dei loro diritti.

Mai come in questa occasione, entrando nelle carceri e intervistando le persone che ci vivono e che ci lavorano ho realizzato chiaramente la veridicità della citazione di Mandela, il motto del progetto: “The way that a society treats its prisoners is one of the sharpest reflections of its character” [Il modo in cui una società tratta i suoi prigionieri è uno dei riflessi più chiari del suo carattere]. Il modo infatti con cui uno Stato interagisce con i detenuti – ovvero una delle categorie sulle quali è più forte e totale il suo controllo e che più di ogni altra si trova nascosta e lontana dal resto della società umana – è chiaramente simbolico delle sue forze ma, soprattutto, delle sue debolezze.

I luoghi del cuore

Ecco la mappa dei luoghi principali che toccheremo durante la nostra spedizione!
Se guardi da vicino trovi anche il sentiero previsto per l’ascesa al Monte Kenya.

ATTENZIONE: maneggiare con cura questo viaggio, elevato rischio di immagini incancellabili incollate nello sguardo.

Ancora non lo sai, ma questi minuscoli puntini prenderanno un posto fisso nei tuoi ricordi, allargando per sempre il cuore fino ad abbracciare il mondo intero!
Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore. (Matteo)

Trek Monte Kenya

Ecco il dettaglio dei giorni che passeremo nella meraviglia del Parco del Monte Kenya, dalla foresta di bambù al cielo stellato della Punta Lenana!

Giorno 1:

Partenza dal Sirimon Gate (2660 m), porta d’accesso al Parco del Monte Kenya.
Partenza attraverso la magnifica foresta montana, con bambù e lobelie giganti fino alla brughiera d’altura e il primo rifugio (Old Moses Camp, 3300 m). Cena e pernottamento.

Dolce trek di 4 ore con dislivello in salita di circa 680 m.

Sirimon Gate

Sirimon Gate

Giorno 2:

Proseguendo sul sentiero in salita, imbocchiamo il sentiero di destra, fino all’attraversamento del fiume Ontulili.
Svolta a destra attraverso la brughiera e oltrepassando il fiume Liki North, proseguendo in salita verso la vallata Mackinder, da cui si godono fantastiche viste sulla vallata verso lo Shipton Camp (4200 m).
Il campo si trova in uno scenario surreale, giusto al di sotto dei pinnacoli e ghiacciai della nostra Montagna, circondati da roditori hyrax e uccelli locali.

Mackinder Valley

Mackinder Valley

Giorno 3:

Acclimatamento in quota e riposo allo Shipton Camp.
Passeggiate per prendere un po’ di quota (370 m) verso le Oblong tarn e Hausberg tarn in mattinata.
Salire a maggiore quota e scendere per la notte è ottimo per acclimatarsi ma possiamo anche sfruttare il riposo al rifugio riflettendo e ammirando le aquile.

Shipton's Camp

Shipton’s Camp

Giorno 4:

Sveglia alle 3 di mattina per raggiungere la Punta Lenana (4985 m) giusto in tempo per l’alba Africana.
La salita parte sul ghiaione ghiacciato e continua su un sentiero roccioso appena tortuoso.
Con una buona luna si potrebbe procedere anche senza pila, senza luna il cielo terso si specchia al suolo con un incredibile spettacolo di stelle.
L’ascesa richiede 3-4 ore.
Si potrebbe scorgere il Kilimangiaro all’orizzonte.

Vetta Punta Lenana

Vetta Punta Lenana

Discesa al Minto Hut per la meritata colazione e discesa verso le Mt Kenya Bandas lungo la meravigliosa vallata con vista su The Temple, lago Michaelson, rocce Mushroom e Giant Billiard Table.

Minto Hut

Minto Hut